cambiamenti nello studio genealogico

Per discutere sulla storia di famiglia e sulla genealogia / Discussions on family history and genealogy

Moderatori: Messanensis, Alessio Bruno Bedini, GENS VALERIA

cambiamenti nello studio genealogico

Messaggioda pierluigic » lunedì 24 giugno 2024, 11:38

lo studio dei ceti dirigenti sta fortemente cambiando per il forte impulso che viene dalla ricerca universitaria
La genealogia sta passando di mano
Dagli appassionati quali noi siamo ai professionisti veri : che sono , solo quelli che insegnano nelle Universita' .

Il nostro centro.nord ed in particolare le terre matildiche intorno al 1000 rappresentano quasi un unicum in Europa , luoghi dove sopravvive forte il
concetto di citta'
Gli storici del passato hanno abusato del termine nobilta' e nobile. Concetti non completamente spiegati , contenitori di molto di indefinito, E tale abuso condiziona ancor oggi le nostre percezioni
Cosi' gli appassionati del presente tendono a dare troppa importanza politica al termine, non dando il giusto risalto agli altri aspetti collegati come ad esempio l'accumulo di ricchezza


Jean-Claude Maire Vigueur col suo Cavalieri e cittadini ha superato il concetto di nobilta' ed ha lanciato una pietra nello stagno proponendo una visione
della cultura della guerra e imponendo una fondamentale definizione di "milites"
Fondamentali per capire l'evoluzione della societa' cittadina che gia dal 1000 tende a mostrare una faccia ben diversa da quella

tradizionale della societa' feudale e che con la morte di Matilde 1115 vede uscire dall'ombra i prodromi dell'eta' comunale con l'emersione di una societa' composita e prettamente cittadina
E' una completa riscrittura ( ed e' il trionfo del buonsenso ) del nostro passato

Purtroppo sembra non esistere un eguale studio sul Regno , che pure sarebbe necessario per comprendere meglio le difficolta' che le regioni del Sud attraversano nel presente


Avevo proposto la lettura del saggio del prof Paolo Grillo

https://www.academia.edu/35190790/Caval ... o=download

ora vorrei proporne qualche brano

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licerca di Hagen Keller su Signori e vassalli, che era apparsa
nel 1979, ma aveva conosciuto una nuova giovinezza storiograica dopo la sua
traduzione italiana del 1995. Il Keller sosteneva che la società urbana del XII secolo
era strutturata nei tre ordini dei capitanei, valvassori e cives, questi ultimi in
posizione tutto sommato minoritaria, e che dunque l’aristocrazia feudale ebbe un
ruolo da protagonista nella genesi delle istituzioni comunali.

Dapprima Paolo Cammarosano e Renato Bordone avevano contestato
l’applicabilità del modello all’intera Italia, individuando aree per le quali i legami
vassallatici erano ininluenti nella definizione dei gruppi dirigenti. Gabriella
Rossetti ha a sua volta rimarcato l’impossibilità di negare la natura schiettamente
urbana e non feudale delle élite urbane. Anche per Milano, che rappresentava il
vero cuore documentario della ricerca di Keller, si è potuto d’altronde sottolineare
che molte considerazioni dello studioso si basavano su un’indebita sovrapposizione
fra nobiltà urbana e nobiltà rurale.

Infine, l’apparizione dell’importante raccolta di studi curata da Andrea Castagnetti
su La vassallità maggiore del Regno Italico ha deinitivamente dimostrato che
le fonti, con buona omogeneità, indicano come la deinizione di “capitaneus” non sia
sempre riconducibile all’inserimento in una precisa gerarchia vassallatica che faceva
capo, in ultima istanza, al potere regio. Non era raro, infatti, che il termine esprimesse
una semplice e generica supremazia sociale che comunque mai, in ambito urbano,
si traduceva nell’esercizio di peculiari prerogative politiche. Nell’impossibilità
di dar conto delle diverse ricerche contenute nel volume, basti ricordare che nelle
conclusioni emergeva chiaramente non solo la dificile applicabilità dell’interpretazione
di Keller nei differenti contesti italiani, ma una forte rivalutazione delle radici
prettamente urbane dei gruppi dirigenti comunali e del dinamismo di questi ultimi,
certamente non riducibile all’immagine, un po’ ingessata, della società per ordines:
«la posizione stessa dominante dei maggiori ceti feudali … viene ridimensionata e, a
volte, superata, per le possibilità offerte ai cittadini arricchitisi su basi non collegabili
agli aspetti feudali, di rapida affermazione sociale e politica».

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Ponendo al centro dell’attenzione la nozione di militia, Jean-Claude Maire
Vigueur riesce a superare una fondamentale dificoltà nell’identiicazione del
gruppo dirigente comunale. Da un lato, infatti, le deinizioni coniate a posteriori
dagli storici (aristocrazia consolare, patriziato, ceto dirigente) si dimostravano
insoddisfacenti o anacronistiche, dall’altro molte designazioni usate dalle fonti
dell’epoca si rivelavano scarsamente connotative. In particolare la frequente
“contrapposizione maggiori/minori” (come peraltro quella fra nobili e popolo,
laddove non si riesca a definire in maniera soddisfacente il primo termine)


Maire Vigueur nel suo volume assume un punto di vista preciso, ossia quello della prima metà del XIII secolo, considerata
quale momento di transizione nel passaggio dal comune consolare a quello
popolare. Le guide scelte in questo itinerario sono infatti principalmente Giovanni
Codagnello (la cui cronaca copre gli anni dalla ine del XII secolo al 1235),
Gerardo Maurisio (che scrive degli anni 1183-1237) e Rolandino da Padova (che
concentra la sua attenzione sul periodo ine del XII secolo-1262). Da questo punto
di osservazione, l’autore può volgere la sua attenzione all’indietro, osservando
il ruolo della militia nelle origini dell’autogoverno cittadino nel secolo XII, e in
avanti, mostrando come l’avvento dei regimi di Popolo nella seconda metà del
Duecento abbia radicalmente mutato quel mondo, minandone i fondamenti politici,
economici e anche culturali.


fornendo una possibile soluzione alla dialettica irrisolta
fra “storia del comune” generale e “storie dei comuni” particolari e superando
la tendenza a analizzare le singole città secondo parametri puramente locali, che
impediscono la comparabilità delle situazioni. Questo elemento comune a tutti i
comuni italiani viene identiicato nella militia urbana, ossia nel gruppo composto
da quelli che lo stesso autore deinisce come «coloro che, sul campo di battaglia
combattono a cavallo» e, in senso più ampio, dalla «totalità delle famiglie che
forniscono i cavalieri all’esercito comunale».


Il bipolarismo “milites/pedites”, invece, diffuso in quasi tutta l’Italia
comunale, rivela potenzialità esegetiche assai più marcate. Mentre infatti “maiores”
è un termine sostanzialmente generico, che può avere una molteplicità di
differenti declinazioni locali, “milites” rimanda a un preciso contesto, comune
alla totalità delle città, quello della “cavalleria urbana”.

Identificare nei milites cittadini il gruppo dirigente comunale ha dunque il
vantaggio di connotare immediatamente i membri di tale gruppo quale élite sociale
e guerriera.


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Giovanni Tabacco ha dato un’immagine
molto più dinamica della cavalleria, mostrando come essa fosse una delle
componenti dell’autorappresentazione del gruppo dirigente comunale e come la
sua progressiva chiusura in un gruppo ereditario abbia profondamente segnato la
società cittadina del Duecento. Muovendo dalle intuizioni di Tabacco, Stefano
Gasparri ha suggerito che le élite cittadina nel corso del XIII abbiano adottato
una serie di riti mutuati dalla cavalleria transalpina per sottolineare e legittimare
la progressiva aristocratizzazione del gruppo dirigente urbano.Pierre Racine,
inine ha sottolineato che fra XII e XIII secolo l’accesso alla militia era legato più
alle condizioni economiche che alla nobiltà della famiglia, pur ritenendo il titolo
ereditario e originato da una formale cerimonia di addobbamento.


In tutti gli studi citati, al centro dell’attenzione stava, in forme diverse, il
problema dell’identificazione fra la cavalleria e il gruppo dirigente cittadino. La
grande novità proposta da Maire Vigueur è stata di privilegiare, per la prima volta,
il ruolo rispetto al rango e di affermare decisamente che nei comuni italiani
si era cavalieri non perché si aveva ricevuto ritualmente il cingulum militie, ma,
più prosaicamente, perché si possedeva un cavallo con cui combattere. Come
hanno recentemente confermato anche altre ricerche, infatti, nelle città non c’era
contrasto fra i milites addobbati e gli altri uomini a cavallo e che per far parte di
questo gruppo non era necessaria l’appartenenza all’ordo feudale. La cavalleria
rappresentava dunque un insieme complesso, nel quale si ritrovavano non solo i
professionisti della guerra, ma tutti coloro che erano dotati di sufficienti risorse inanziarie,
quali proprietari terrieri, mercanti, cambiatori e perino quegli artigiani
arricchiti che tanto imbarazzavano Ottone di Frisinga, costretto a constatare che
i comuni italiani non si facevano “problemi ad elevare alla condizione di cavaliere
e alle dignità di governo i giovani di umili condizioni e addirittura gli artigiani
che si occupano di spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono lontano
come la peste dagli ufici più onorevoli e liberali”.
Definire i cavalieri in base alla loro funzione militare, ha imposto a Maire
Vigueur una scelta tuttora considerata controcorrente, ossia assumere la guerra
come oggetto di studio
. In effetti, a un diffuso interesse per il ruolo sociale dei
milites non era ino a quel momento corrisposta un’eguale attenzione per la pratica
delle armi, pur nella diffusa coscienza che, come è stato affermato per la
Toscana del XII secolo, l’affermazione dei comuni urbani «si realizzò fondamentalmente
sulla base della violenza armata, o della minaccia della violenza armata,o di pattuizioni e iniziative diplomatiche che comunque presupponevano la forza
militare dei protagonisti»
.
Per Maire Vigueur, la guerra comunale ha innanzitutto un ruolo economico,
tanto che egli si spinge ad assimilare le societates di cavalieri alle loro omonime
associazioni mercantili, che proprio allora andavano prendendo piede nelle più importanti
città italiane. Esaminandone l’attività e l’organizzazione, una compagnia
di militi appariva assimilabile a una «società d’affari o commerciali, interessata
alla gestione scrupolosa delle riserve e dei capitali» più che a «un gruppo di estremisti
ossessionati dalle lotte di partito».34 La dettagliata analisi dei conlitti combattuti
nei primi decenni del secolo nella Lombardia meridionale è utile all’autore
per delineare i tratti peculiari di queste operazioni militari, che raramente prevedevano
scontri in campo aperto e di solito si risolvevano in campagne di saccheggio
a vasto raggio, punteggiate di quando in quando da qualche assedio.35 I bottini conseguiti
nel corso di queste spedizioni dalla «natura fondamentalmente predatrice»
e i riscatti richiesti alle famiglie dei nemici catturati rappresentavano una fonte di
entrate fondamentale per i combattenti a cavallo anche se specularmente, è bene
ricordarlo, essere catturati poteva implicare spese tali da rappresentare un motivo
di rovina economica per lo sfortunato combattente e la sua famiglia. 36
Anche all’interno delle città, la guerra e le sue conseguenze muovevano interessi
economici di grande rilievo. I cavalieri, in particolare, avevano diritto al
rimborso dei danni subiti dalle cavalcature e ne approittavano presentando denuncie
goniate ad arte, tanto che questa spesa, detta emendatio, poteva diventare
una delle principali voci passive dei bilanci comunali. Ancora, il ruolo fondamentale
dei milites nella difesa delle città li portava ad avere una certa quantità
di privilegi – un accesso privilegiato ai beni collettivi, esenzioni iscali mirate,
talvolta pure donativi e assegnazioni di redditi – anche se la natura e l’entità di
questi beneit variavano notevolmente da un centro urbano all’altro.

Oltre a smuovere grandi interessi economici, essa aveva anche un ruolo determinante nel sistema
dei valori cittadini. In una mentalità collettiva saldamente ancorata a stilemi virileggianti,
i combattenti offrivano ovviamente un modello sociale di comportamento
che attirava consenso e ammirazione. In questo contesto, si veriicò
anche la prima importazione di modi letterari transalpini.42 La società di cavalieri
pisani che verso il 1237 decise di chiamarsi compagnia della «Tavola Ritonda»
rappresenta l’esempio forse più clamoroso, ma certo non unico, dell’inluenza
che i romans del ciclo bretone cominciavano ad avere in Italia.


Il prestigio legato alle abilità belliche faceva d’altronde sì che queste venissero
considerate un normale strumento di gestione dei conlitti anche all’interno
del mondo urbano, rendendo spesso violenta la competizione tra le famiglie per
l’accesso alle risorse politiche ed economiche del comune.45 Soltanto la grande
“rivoluzione culturale” e pedagogica promossa dal Popolo nella seconda metà
del Duecento riuscì a mettere in discussione questo modello,46 senza peraltro mai
superarlo del tutto.


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Il gruppo dirigente così deinito risultava ampio e articolato. Poteva includere,
a seconda delle realtà, gruppi più o meno consistenti di vassalli episcopali e
titolari di diritti signorili e i suoi membri erano di solito dediti allo sfruttamento
di proprietà terriere di varia consistenza. Ne facevano però parte anche personaggi
interessati agli investimenti inanziari e ai trafici mercantili, soprattutto
nelle cosiddette “repubbliche marinare”, ma pure nei centri dell’entroterra dove
iorivano le attività commerciali e bancarie. In effetti, la caratteristica principale
della militia comunale del XII secolo era la sua dinamicità, dato che non vi era
nessuna chiusura a priori del gruppo e chiunque potesse permettersi di acquistare
destriero e armatura vi veniva automaticamente cooptato.48
A Milano come altrove, sulla base delle ricerche più recenti, non sembra più
possibile teorizzare la sostanziale continuità dell’intero gruppo dirigente comunale
dal X al XII secolo. La vivacità sociale ed economica delle città pare invece
aver imposto un profondo ricambio, che ha visto la decadenza e la marginalizzazione
di antiche discendenze e la rapida ascesa di nuovi gruppi sociali. Ancora
una volta, le ricerche su Vercelli hanno dimostrato che la maggior parte degli
esponenti del gruppo dirigente comunale apparteneva a famiglie emerse nel corso
dello stesso XII secolo, spesso grazie ai legami con la curia episcopale nella quale
però occupavano un rango molto basso, e che per molte di queste era stata l’affermazione
entro le mura urbane a permettere una successiva acquisizione di beni
e diritti nelle campagne.63 Lo stesso ha riscontrato François Menant a Cremona,
dove, a parte un piccolo gruppo di grandi vassalli episcopali, la maggior parte
del gruppo dirigente comunale era composta da «cittadini la cui famiglia risiede
in città da molto tempo e che stanno diventando proprietari e spesso signori rurali
per acquisto o per ottenimento di precarie e beneici episcopali».64 A Parma,
Reggio nell’Emilia e Modena fra il 1130 e il 1145 emerse alla guida della città
un gruppo di famiglie eminenti urbane, legate ai vescovi locali e del tutto o quasi
estranee alla vassallità canossiana ino ad allora egemone.65

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La situazione non mutava nell’Italia centrale. Enrico Faini ha rilevato che non
più di quattro tra le famiglie consolari fiorentine del XII secolo sono riconducibili a
stirpi della precedente aristocrazia funzionariale, mentre la quasi totalità del nuovo
gruppo dirigente era di origine urbana. A Terracina le discendenze legate al comitato
di Fondi e i vassalli pontiici vennero progressivamente a mancare e l’élite cittadina
nel XII secolo non aveva fra i suoi ranghi signori del contado: le famiglie del
gruppo dirigente di età consolare «ci appaiono del tutto nuove», legate prettamente
all’ambito urbano e agli immediati dintorni della città, dove possedevano terre e
impianti produttivi quali mulini e pescherie.67 Lo stesso Maire Vigueur, inine, ha
studiato il caso di Roma, dove le grandi dinastie che avevano dominato i secoli centrali
del Medioevo scomparirono fra XI e XII secolo, rimpiazzate da alcune grandi
discendenze cittadine (i Pierleoni, i Frangipane e i Corsi) e dalle famiglie della
militia. Queste ultime, le protagoniste della costruzione del comune, erano tutte di
matrice schiettamente urbana, e si erano affermate grazie al controllo di importanti
beni fondiari nelle campagne circostanti, al commercio e all’attività bancaria.68





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