Mostra visitata il 9 settembre in compagnia dell'ottimo Elmar Lang, che come novello Virgilio ha accompagnato, e quasi condotto per mano, uno smarrito Dante (il sottoscritto) alla scoperta delle (in questo caso, poche) delizie della Faleristica e delle (innumerevoli) perplessità di questa esibizione faleristica.
Esibizione piccolina, collocata in due sale al pianterreno di un ex esercizio commerciale (una volta si sarebbe detto "bottega", e in senso per nulla spregiativo) nella magnifica location della Basilica Palladiana. Nessuno di stupisca della commistione fra il sacro del pubblico edificio e il profano del commercio minuto: il pianterreno dell'edificio é ancora costituito da quelle stesse botteghe medievali, pragmaticamente conservate dai maggiorenti cittadini che acquisirono l'areale, e quindi rasate all'altezza del primo piano (pianterreno più mezzanino) per costituire la base dell'immensa sala gotica che costituisce il piano superiore dell'edificio (solo successivamente inscatolato nel superbo doppio ordine di loggiati vitruviani ad opera del genio di Andrea Palladio).
Vetrine piccole, ben illuminate, salvo qualche - invero più d'una - lampadina alogena fulminata.
A posteriori, si può pensare che forse l'idea di rimuovere TUTTI i nastri (tranne un paio, se ben ricordo) più che aver costituito una (inspiegabile e censurabile) scelta espositiva sia invece stata suggerita dalle temperature certo elevatissime generate dai faretti. Con buona pace di pece, ceralacca e delle altre sostanze termosensibili di cui é ricco il "cuore" delle decorazioni.
Alle pareti, ampi pannelli illustrativi - bilingui italiano e inglese - così come bilingui erano le didascalie apposte a fianco di ciascuna decorazione. Ma su questi pannelli e queste didascalie ritornerò alla fine, giacché costituiscono l'apoteosi (al ribasso) dell'intera esposizione.
La minaccia di allarmi sensisbilissimi fattaci all'ingresso si é rivelata fasulla (ci siamo avvicinati e sporti e insinuati fra le vetrine oltre ogni decenza... e nessun campanello d'allarme é scattato).
Il contenuto, esposto con nessun nesso logico (o se nesso vi era, forse vagamente geografico), presentava cose di qualità assai disparata.
Le più trascurabili (per insignificanza) erano un OMRI neanche tanto vecchio, un piccolo collare del'Annunziata, in versione fusa e non coniata, certo del dopoguerra, un collare costantiniano di manifattura alquanto recente, un cavalierato della Corona Ferrea austriaca banalotto e tristanzuolo, più altre cosette che sarebbe solo noioso elencare.
Tutto il resto, in sé un qualche interesse lo rivestiva: si andava dai pezzi più pregiati della collezione "Andrea Rosso" (Signore che non conosco, ma con cui vorrei complimentarmi per la scelta sempre - o quasi - focalizzata su un altissimo livello esecutivo, anche e soprattutto nei casi delle insegne più comuni), rimarchevoli per qualità, alle cose eccezionali ora in proprietà degli eredi Giolitti.
Fra i primi, mi ha colpito una deliziosa una insegna dell'Ordine Reale di Cambogia - di qualità finissima (pezzo in sé comune - e di poco valore se commisurato a molte altre cose espsoste - ma raro a vedersi in una tale fotonica qualità di traforatura e diamantatura), ma inutilmente spacciata come gran croce quando era un semplice cavalierato (e su questa profuzione di gran croci farlocche torneremo in seguito) , una Legion d'Onore primo impero in condizioni estremamente buone (qualche lieve perdita allo smalto bianco all'attacco della corona, per il resto immacolata), una croce di San Vladimiro ancora napoleonica, perfetta e rarissima.
Errori marchiani nelle descrizioni come se piovesse (ad esempio una Gran Stella di Jugoslavia che in realtà era semplicemente Stella), ma su questo torneremo diffusamente più avanti.
Fra i pezzi giolittiani, svettava la placca di gran croce di Sant'Alessando Newskij, in argento (come si usava allora per montare i diamanti), diamanti, smalti e qualche piccolo riportino in oro a livello dei castoni della coroncina), certamente - stante la qualità - di diretta commissione imperiale, databile a inizi '900.
Anche gli altre decorazioni già appartenute a Giolitti erano non dico da far tremare le vene ai polsi, ma comunque assai notevoli: un pendente di gran croce dei SSML (qualità superba pur nella non eccezionalità del pezzo in sé), un pendente di gran croce dell'Aquila Rossa della migliore manifattura berlinese (ancorché lesionato su una aquilotta staccatasi dal bracco della croce e poi fissta con un PEZZO DI NASTRO ADESIVO, fortunatamente poco visibile perché al retro), un bel pendente portoghese del Cristo, anche se accompagnato ad una bellissima ma spaiata croce da commendatore (con il "cuore" bianco che seguiva interamente il profilo rosso esterno: mai visto prima!), certo molto più antica (il tutto era gabellato come insieme di gran croce).
Bellissima, fra le cose giolittiane, anche una gran croce dell'Aquila Bianca serba. Più perplessi lasciava invece una gran croce (anche se meglio sarebbe "Grand Commander", ma le finezze storico-statutali qua davvero non erano di casa...) della Redenzione liberiana, scarsina per qualità (sul bordo dei raggi della placca erano chiaramente visibili i segni slabbrati del seghetto da orefice...) e anche esteticamente non troppo convincente (in tutta onestà, o si tratta di un pezzo straordinariamente modernista - specie in alcuni dettagi come il serto del pendente di gran croce - o appare successivo all'età di Giolitti).
Arriviamo infine all'apparto infografico che avvolgeva e direi assediava le vetrine espositive: il nulla portato alla sua massima espressione.
Mere ed elementari descrizioni
visive dei pezzi esposti, senza alcuna nota storica o tecnica.
Ma con le decorazioni riprodotte sui bordi dei tabelloni in formato gigantografico, spesso ripetute ribaltate o sbieche in basso sullo stesso tabellone, in un contraltare che a chi ha ingegnato la grafica doveva sembrare gradevole e/o significativo, una sorta di dialogo fra la decorazione e sé medesima ribaltata sul bordo inferiore, che sembra spuntare e fare "cucù": il tutto alquanto puerile, ma forse (?) l'intento era proprio giocoso e fanciullesco, intento umoristico pienamente raggiunto giacché abbiamo riso come dei matti.
Le traduzioni in inglese meritano una nota (tragica) a parte.
La parola "croce" espunta dal lessico (tanto in italiano quanto in inglese), se non nella variante (come vedremo, abusata) di "gran croce", con conseguenti scelte alternative che hanno dell'esilerante.
"
Insegna" tradotta come "
coat-of-arms".
COAT-OF-ARMS (cioé stemma, in inglese), santo cielo!
"
Insegna di gran croce" tradotta come "
grand cross coat-of-arms".
"
Placca" tradotta come "
badge" (invece che
breast-star). Un'unica volta, fra decine, c'é un "
plaque" un po' meno sbagliato).
E questo ripetutto ossessivamente, insistentemente su decine fra tabelloni e didascalie.
Un croce da cavaliere chiamata medaglia e tradotta come tale (ma c'é anche la variante "
insegna da cavaliere" che ovviamente diviene un disperante "knight coat-of-arms").
Insegna da collo (commendatore) definita medaglia.
Insegna da collo definita di gran croce o collare.
Financo croci da cavaliere (oltre a quelle da commendatore) spacciate per "gran croci" come se non ci fosse un domani.
Una vera gran croce (il pendente) declassata invece a "da commendatore" (
Knight commander coat-of-arms nell'immancabile castroneria in inglese) con la sua placca di gran croce lì a fianco (esposta a 10 cm di distanza nella stessa vetrinetta!!!).
E questo declassamento, in mezzo a dozzine di aumenti posticci, si replica financo una seconda volta, sempre con la sua placca lì a fianco a gridare inutilmente la sua presenza...
Il non-plus-ultra della traduzione fallita viene propbabilmente raggiunto dalla "
insegna da cavaliere con spade" che diviene "knight with swords coat-of-arms" (ovverosia, lo
stemma del cavaliere armato di spade, più o meno).
Ma usare un dizionario ITALIANO-INGLESE in maniera intelligente pareva brutto?
Ma chiedere a qualcuno con un minimo di esperienza in materia, congiunta a un minimo di conoscenza delle lingue, pareva brutto?
Probabilmente nemmeno google-translator avrebbe prodotto queste perle di una tale involontaria comicità (e tragicità).
Di fronte a questo epic-fail linguistico, passa quasi in secondo piano il "collare di dama del Gran Priorato d'Italia O.S.M.T.H.", una cosa fatta di smalto sisntetico e doratura plasticosa.
L'insignita, a quanto ho capito, é la stessa curatrice che evidentemente ci teneva a mettere in mostra la cosa: contenta lei...
La vetrina-marchetta pubblicitaria con le croci gioiello ispirate alla Corona d'Italia (con lo smalto bianco sintetico che pertanto assomigliava a una concrezione solidificata biancastro-traslucida abbastanza repellente a vedersi...) é la ciliegina sulla torta della scientificità (e sul buon gusto) di questa iniziativa.
Scusate le certo molte castronerie ortografiche, ma da mobile non é poi così facile scrivere.